David Bowie: aneddoti, storie e segreti - da Space Oddity a Heroes

By editorial board on Gennaio 6, 2018

1969: Space Oddity  è al 5° posto della classifica inglese dei 45 giri.  Bowie ha 23 anni, Pete Townshend 25, Ray Davies 26, Mick Jagger 27.

Pubbllichiamo alcuni estratti dell'articolo del 13 marzo 2016 di Alberto Piccinini uscito su Rolling Stone Italia sulla vita" segreta" ma non troppo di David Bowie agli inizi della sua carriera fino al periodo berlinese. l'articolo completo si trova su http://www.rollingstone.it/musica/news-musica/storia-delle-storie-di-david-bowie/2016-03-13/

All the Young Dudes, scritta nel 1972 quando Bowie ha in effetti 25 anni, e regalata ai Mott the Hoople di Ian Hunter che ne fanno uno dei grandi inni rock del periodo

La canzone – dice Bowie avrebbe dovuto far parte di un musical di fantascienza basato sul personaggio di Ziggy Stardust. Trama: “Mancano cinque anni alla fine del mondo (…) Ziggy suona rock’n’roll e i ragazzi non vogliono più rock’n’roll. Non c’è più elettricità per suonarlo. Qualcuno consiglia a Ziggy di raccogliere notizie e cantarle, perché non c’è più neppure il telegiornale. Ziggy lo fa, le notizie sono terribili (…) Non è un inno all’essere giovani come molti pensano, è esattamente l’opposto”.

L’antirock

Questa storia del musical mai scritto su Ziggy Stardust è un pallino del Bowie di quegli anni   Aggiungerà in qualche occasione di non avere avuto la pazienza e il tempo di scriverlo per intero. A William Burroughs dirà invece di Ziggy Stardust come di una “versione abbreviata” di un musical

Da Londra alla Luna

Mercoledì 30 luglio 1969 volò da Malta a Roma in compagnia del suo manager di allora, Ken Pitt. Non era ancora famoso e neppure ricco Un mese prima aveva registrato Space Oddity ai Trident Studios di Londra, in una session della quale tutti i partecipanti avevano riconosciuto subito la “storica importanza”. Nonostante il protagonista della storia – l’astronauta Major Tom – si perdesse beato nello spazio, la canzone era stata scaltramente offerta alla BBC per musicare la diretta dell’allunaggio dell’Apollo 11. Era effettivamente andata in onda a un certo punto della nottata.

La sera del 31 luglio Bowie era atteso a Monsummano Terme, provincia di Pistoia, per il Festival internazionale del disco.

Ken Pitt era un manager all’antica, e per questo di lì a poco sarà escluso un po’ crudelmente dal giro. Alto, elegante, grandi occhiali. Un raffinato omosessuale che sapeva citare Keats, si intendeva d’arte e adorava le canzonette. Fu conquistato, quando ascoltò David Jones una sera del 1967 al Marquee di Londra interpretare una vecchia canzone di Judy Garland. Si innamorò di lui, 20 anni appena compiuti, lo ospitò per qualche tempo a casa sua in Manchester Street. Pitt sognava per Jones/Bowie un futuro da entertainer leggero, e si faceva in quattro perché qualcuno si accorgesse di lui. Pigmalione fino in fondo, gli aveva fatto leggere Oscar Wilde e Christopher Isherwood. Di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti tirò fuori dalla valigia il primo lp dei Velvet Underground. Anche questo ebbe un’enorme influenza sul ragazzo ancora vestito da mod: alla fine di settembre 1971, quando il suo nuovo manager Tony Defries organizzò un viaggio promozionale a New York, Bowie volle incontrare per primi Andy Warhol e Lou Reed (al quale produrrà di lì a poco l’album Transformer). La stessa notte, al Max’s Kansas City, si imbattè  in Iggy Pop.

Di aneddoti sulla “bisessualità” di Bowie sono piene interviste e biografie. Alcune di queste interviste – come la prima e più famosa, apparsa su Melody Maker il 22 gennaio 1972 – sono dei fantastici exploit teatrali: «Sono gay», disse quella volta, «lo sono sempre stato anche quando mi chiamavo David Jones». Poi c’è il playback di Starman alla tv inglese, Top of the Pops, il sesso mimato di fronte a milioni di adolescenti con gli occhi di fuori tra lui e il chitarrista Mick Ronson. Ma in realtà, i commenti più carini sulla sessualità di Bowie vengono dagli amici, tutti invidiosi perché all’epoca lo squattrinato 20enne non aveva quasi mai problemi a «pagare l’affitto di casa». Ken Pitt raccontava di averlo raccolto che dormiva in un camioncino. Nel 1968 si era trasferito a casa di Hermione Farthingale, una danzatrice della compagnia di Lindsay Kemp, in un appartamento hippy-chic di South Kensington. Dall’aprile 1969 viveva nel sobborgo di Beckenham – non lontano dalla casa dove era nato – con Mary Finnigan, giornalista del periodico underground International Times, e i suoi due figli.

Tony Visconti che si rifiutò di lavorare su Space Oddity, perché la trovava troppo commerciale, furba, nell’anno della Luna, ma che in seguito si mangiò le mani per non aver partecipato alla registrazione. Con Hermione Farthingale e il bassista John Hutchinson, Bowie aveva messo in piedi alla fine del 1968 un trio folk-rock, i Feathers. Senza successo, ma cominciava a farci l’abitudine. Dei Feathers resta un lungo filmato promozionale, Love you Till Tuesday: sette canzoni messe in scena tra boschi e boutique dai tre musicisti, un pezzo di mimo e la prima versione di Space Oddity. L’idea di Pitt era quella di vendere il filmato alla tv tedesca. Un altro fallimento.

In quei giorni spuntò fuori, infine, un certo Calvin Lee che a Londra conosceva tutti, e aiutò Bowie a firmare il contratto con la Mercury per Space Oddity. A una cena in un ristorante cinese il cantante si innamorò all’istante della fidanzata di Lee, Angela Barnett. Dopo aver assistito a un concerto dei King Crimson, i due passarono la notte assieme. Il 20 luglio guardarono in tv la diretta dalla Luna, Angela uscì un momento di casa e rientrò sostenendo di aver visto degli extraterrestri. “Ho conosciuto mia moglie”, recita una celebre citazione di un’intervista di Cameron Crowe, “perché uscivamo con lo stesso uomo”.

 

A Pistoia

Dieci giorni dopo, a Monsummano Terme, provincia di Pistoia, a sei ore di pullman da Roma, Angela Barnett era lì ad aspettare Bowie.  “Mentre eravamo tutti riuniti nell’ingresso dell’hotel, in attesa di raggiungere il teatro, David e Angela iniziarono a scendere lentamente l’ampio scalone. Era un’apparizione di grande effetto che provocò grande eccitazione. I capelli di David erano striati di nero e tenuti insieme da un nastro di velluto nero. Indossava una magnifica camicia vecchio stile che Angela aveva trovato per lui al mercato di Portobello Road: Angela indossava un lungo abito diafano e sottile, così trasparente che si poteva vedere chiaramente che sotto non portava nient’altro che un paio di slip. (…) sembravamo più una bizzarra congrega nuziale che i partecipanti a un festival di musica internazionale”.

Il programma del festival di Monsummano, presentato da Daniele Piombi e  prevedeva l’esibizione di cinque cantanti: l’argentino Riccardo Cerrato, l’austriaco Peter Horton, la belga Ann Soetart, la francese Sabrina, il tedesco Giorge Monro (sic) – tutti nomi di cui nel tempo si sono perse le tracce. Bowie rifiutò la scalcinata orchestrina di accompagnamento fornita dal festival, si mise fuori gara e cantò sulla base preregistrata una canzone del suo album del 1967: When I Live My Dream:  . Piacque. All’unanimità, i giurati internazionali di Monsummano, lo premiarono come “Disco meglio prodotto”.

Berlino

Quando uscì Station to Station, nel 1976, il critico di Creem, Lester Bangs, si produsse in una memorabile stroncatura. Non del disco che, a modo suo, apprezzava. Ma del personaggio: “Come tutti i lettori fedeli di questa rivista sanno”, scrisse Bangs, “David Bowie non è mai stato un mio eroe. Ho sempre pensato che tutta quella roba di Ziggy Stardust uomo-delle-stelle fosse una montagna di merda, specialmente perché arriva da un tizio che non prende volentieri neppure un cazzo di aeroplano”. Bangs aveva in orrore tutto quanto nel rock era “poetico” e pretenzioso. E in effetti, Bowie era arrivato in America via nave, il 1° aprile del 1974, sul transatlantico SS France.

Una cosa è certa: avesse preso volentieri l’aereo, non avrebbe viaggiato in treno tra Berlino, Varsavia e Mosca, né avrebbe camminato in quelli che sarebbero diventati di lì a breve gli scenari della sua Trilogia. A Brést, uomini del Kgb o qualcosa del genere gli sequestrarono alcuni libri sul nazismo, la sua segreta, imbarazzante passione del momento assieme agli Ufo e all’esoterismo. Al suo compagno di avventura Iggy Pop furono sottratti alcuni numeri di Playboy. A Varsavia ebbe tempo di passeggiare per poche ore in città: si avviò lungo un grande viale dritto e semideserto che usciva dalla stazione Warszawa Gdansk, scritto in neon bianco sulla cima del piccolo edificio moderno. Arrivò a un rondò dove c’era un negozio di dischi e lì comprò un lp di musica tradizionale vocale, che si rivelerà molto simile alla parte cantata di quella straordinaria mini-sinfonia alla Shostakovich intitolata per l’appunto Warszawa.

 

Heroes è la storia di due amanti. Forse sono separati dal Muro. Forse stanno cercando di fuggire e si baciano per l’ultima volta mentre i fucili gli sparano sopra le teste. Può darsi che fosse stato il dipinto dell’espressionista berlinese Otto Mueller Coppia di amanti custodito al museo Die Brücke, che Bowie aveva visitato, a suggerire l’immagine. O la fugace storia d’amore tra il produttore Tony Visconti e la cantante Antonia Maas – un bacio all’ombra del Muro sbirciato dallo stesso Bowie dalle finestre dello studio di registrazione Hansa Ton – a ispirare il testo. Chissà se c’era dell’ironia in quell’“eroi”. Seguendo il metodo di tutta la lavorazione della “trilogia”, il testo fu inciso per ultimo, quando la tessitura sonora era già pronta.
Per Heroes dapprima fu incisa la sezione ritmica, processata con un primitivo campionatore da Visconti. Poi fu registrata la chitarra di Robert Fripp (che rimase a Berlino una sola notte, quella), “passata” quindi al sintetizzatore Arp, che Brian Eno si portava nella valigia. Infine, venne l’incredibile crescendo della voce di Bowie, dal crooning iniziale fino al lancinante urlo finale. Visconti aveva imparato il mestiere da George Martin, il produttore dei Beatles: tagliò e incollò varie parti delle diverse registrazioni della base, quindi posizionò tre microfoni a diversa distanza da Bowie nel grande studio. I microfoni venivano attivati dalla differente emissione vocale, sfruttando l’eco delle pareti. E, a fine canzone, la voce sembrava venire giusto di là dal Muro, restituendo perfettamente l’inquietudine che prendeva chiunque lo vedeva per la prima volta e, salito su una delle torrette di guarda, scopriva il vuoto della terra di nessuno verso Berlino Est.

Cocaina

Berlino fu per Bowie prima di tutto una cura. A Los Angeles – la città dove aveva vissuto i due anni precedenti – si era ridotto a uno scheletro ambulante: non usciva quasi mai, stava sveglio solo la notte, beveva unicamente latte, fumava quattro pacchetti di Gauloises al giorno. Al resto ci pensava la cocaina. Dopo aver inciso due brillanti album funky-soul come Young Americans e Station to Station, era devastato da manie di persecuzione, deliri occultisti, fantasie naziste. Queste ultime, espresse in dichiarazioni tipo: “Hitler è stata la prima rockstar”, lo avevano reso pressoché impresentabile in Inghilterra, specie dopo che il Daily Star aveva pubblicato una foto nella quale lui faceva “il saluto nazista”. E a poco valse la precisazione che stava solo salutando i fan. A Londra, il punk e “Rock Against Racism” (il movimento inglese che nacque anche a causa della velocità con cui i gruppi neofascisti si erano appropriati delle imbarazzanti dichiarazione di Bowie), gli avevano già giurato guerra.

Invece, a Berlino sembrava che nessuno lo conoscesse. Si svegliava tardi e saliva in bicicletta: il percorso da casa agli studi Hansa Ton, nello sconvolgente e polveroso vuoto tra Potsdamer Platz e l’Anhalter Bahnhof, il mozzicone dell’ex stazione ferroviaria più grande d’Europa, aveva il Muro come quinta. Qui vide un giorno tra i graffiti la scritta “Bowie” con la “e” trasformata in una svastica. Non ne fu contento, e scese a più miti consigli col passato. «Tutta colpa di Los Angeles», ricordò una volta durante una lunga intervista a New Musical Express, «un posto fottutissimo che dovrebbe essere spazzato via dalla faccia della Terra. A Berlino mi trovai ad affrontare la questione, perché tutti i miei amici erano di sinistra. Incontravo questi ragazzi della mia età che avevano avuto padri nelle SS, ed era un buon modo per risvegliarmi dall’incubo, ricominciare a far funzionare la testa in un modo più normale… Sì, tornare in Europa fu come ricadere sulla Terra».

 

 

 

 

 

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